Starbucks a Milano
Finalmente dopo un anno dalla
sua apertura sono riuscita ad andare a prendermi un caffè da Starbucks a
Milano. Sono particolarmente affezionata a questa catena di caffetterie
americana: in primo luogo perché il nome mi ricorda un personaggio di un
classico della letteratura americana che amo, Starbuck è il primo ufficiale del
Pequod, la baleniera guidata dal capitano Achab in Moby Dick di Herman
Melville; in secondo luogo perché coloro che hanno progettato, creato e
immaginato queste caffetterie, che ora è una grande catena sparsa un po’
ovunque nel mondo, sono due professori e uno scrittore insieme ad un
imprenditore americani agli inizi degli anni ’70, che all’epoca avevano più o
meno la mia età. I tre giovani letterati che frequentano l’Università di San
Francisco, durante il loro soggiorno nella città lombarda rimangono attratti
dai caffè che sono soliti bazzicare e, prendendo spunto da questi, aiutati dal
giovane imprenditore Howard Schultz noto per essere l’amministratore delegato
di Starbucks, decidono di ricreare anche nel loro Paese d’origine un ambiente
culturalmente stimolante e dove prendere un buon caffé.
Quando mi trovo in una capitale
estera o comunque in una grande città se c’è un caffé Starbucks mi piace andare
a bere qualcosa o anche solo a curiosare. Anche se ora Starbucks è una grande multinazionale e anche qui ormai
l’odore del consumismo arriva, capita spesso di trovare turisti di diverse
nazionalità che avendo riconosciuto il marchio come qualcosa di famigliare,
entrano sentendosi un po’ a casa e interagiscono fra loro. È un po’ come se
diversi continenti o diverse nazioni fossero chiuse in una stessa stanza, credo
sia la parte bella della globalizzazione.
Oggi chi sognerebbe ancora
Starbucks?
La storia di come è nata
questa catena mi è sempre piaciuta e mi sento un pochino affine a questi
ragazzi. Spesso mi chiedo: ma oggi tutto questo sarebbe possibile? Ci sarebbe qualcuno
capace di immaginare un posto così?
La risposta è quasi sempre
no. Questo perché, a mio avviso, viviamo in una società che si prende più cura
dell’immagine che del contenuto; siamo schiavi del consumismo: più attenti al
denaro che viene visto come un fine e non come un mezzo, più preoccupati a
possedere ciò che ci fanno credere sia necessario, che a capire di cosa
realmente ci sia bisogno per imparare e migliorare. Non siamo più educati a
riconoscere la bellezza e secondo me più passano le generazioni più questo
disagio si aggrava.
Cosa fare adesso?
Le domande successive che mi
pongo sono: si può porre rimedio?
Siamo consapevoli di quello
che sta succedendo? Esiste la volontà di cambiare rotta?
La risposta alla prima
domanda è: si! E’ possibile rieducare alla bellezza, alla cultura facendo
bellezza, imparando e conoscendo la cultura, sperimentandola tutti i giorni:
incentivando la lettura, la musica, il cinema, il teatro…incentivando la
conoscenza delle arti.
Ma, la risposta alle altre
domande, non so se riesco a darmela. Effettivamente non so se ci sia una
volontà comune che abbia veramente voglia di riempire queste lacune o che abbia
anche solo la consapevolezza dell’esistenza di queste lacune.
E ancora…
Come per i ghiacciai che si
sciolgono per cui non è possibile arrestare il fenomeno e tornare indietro, si può rallentare il processo? E attraverso
una nuova educazione è possibile modificare il modo di agire delle persone?
Io non so darmi una risposta
a tutte queste domande, ma so che più me le pongo più mi viene voglia di
cambiare.
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