domenica 21 novembre 2021

Shakespeare and Company: l’amore per la lettura

Secondo le statistiche, se prendiamo in considerazione dieci persone: 5 scrivono, 3 leggono e 2 né leggono né scrivono. 

Partendo dal presupposto che invidio tantissimo quei 2 che sono sazi già così, nel senso che il loro mondo o la loro visione del mondo non ha bisogno di niente di più di ciò che la vita offre loro. Veramente la mia non è una critica, è un dato di fatto, invidio il loro equilibrio.

Equilibrio che io sto ancora cercando, perché io mi ritrovo in quei tre che libro dopo libro sono curiosi di scoprire un nuovo punto di vista, una storia che ancora non conosco. Sempre alla ricerca di mondi lontani e diversi, di tempi andati o futuri e di personaggi con bislacche teorie in testa. 

Lo scopo non è di spettegolare o solo quello di curiosare, ma credo sia quello di conoscere gli altri e il mondo che ci circonda e forse, ancora più urgente, è quello di conoscere me stessa.

A diciotto anni mi ritrovo a leggere Joyce in inglese con la sua gente di Dublino, il suo Ulisse, il flusso di coscienza, le virgole mancate e i punti inesistenti. 

Un vorticoso scorrere di prole per cui i casi sono due: o vai controcorrente e ti trascini fuori dal vortice oppure lo assecondi e ti lasci andare.

 

Ecco io ho scelto di lasciarmi andare…


Capitolo 3

Shakespeare and Company

 

A quei tempi non c'erano soldi per comprare libri. I libri li prendevi in prestito alla biblioteca circolante della Shakespeare and Company, che era la biblioteca e libreria di Sylvia Beach al 12 di Rue de l'Odéon. In una via fredda e spazzata dal vento, era un posto simpatico, caldo e accogliente con un grande camino in inverno, tavoli e scaffali di libri, libri nuovi in vetrina, e al muro fotografie di famosi scrittori, sia morti che viventi. Le fotografie avevano tutta l'aria di istantanee e anche gli scrittori morti avevano l'aria di essere stati vivi davvero. Sylvia aveva un viso vivace, finemente scolpito. occhi castani vivi come quelli di un animaletto e allegri come quelli di una ragazzina, e capelli castani ondulati che portava spazzolati all'indietro sulla bella fronte e tagliati sotto le orecchie e all'altezza del colletto della giacca di velluto castano che indossava. Aveva delle belle gambe ed era gentile, disponibile e interessata, e le piaceva fare scherzi e spettegolare. Non ho mai conosciuto nessuno che sia stato più gentile con me.

Ero molto timido quando sono entrato per la prima volta in libreria e non avevo con me abbastanza soldi per iscrivermi alla biblioteca circolare. Lei non mi conosceva e l’indirizzo che le avevo dato, rue Cardinal Lemoine 74, non avrebbe potuto essere più misero. Ma lei era deliziosa e affascinante e ospitale e dietro di lei, alti fino al soffitto e sconfinati nel retrobottega che dava sul cortile interno dell’edificio, vi erano scaffali e scaffali coi tesori della libreria.

Cominciai con Turgenev e presi i due volumi di Memorie di un cacciatore un vecchio libro di D.H. Lawrence. Credo fosse Figli e amanti, e Sylvia mi disse di prendere altri libri se volevo. Scelsi la traduzione di Costance Garnett di Guerra e pace, e Il giocatore e altri racconti di Dostoevskij.

“Non tornerà qui molto presto se legge tutta questa roba”disse Sylvia.

“Passerò a pagare” dissi io. “A casa ho un po’ di soldi”.

“Non volevo dire questo” disse lei. “Paghi quando le fa comodo”.

“E Joyce quando viene?” chiesi.

“SE viene, di solito è nel pomeriggio molto tardi” disse lei. “L’ha mai visto?”

“Lo abbiamo visto da Michaud che mangiava con i suoi” dissi io.Ma non è educato guardare uno mentre sta mangiando, e Michaud è caro”.

 

Festa mobile

Ernest Hemingway







giovedì 2 settembre 2021

A dieci anni dalla morte di Walter Bonatti Rai1 ci propone una favola moderna che non tutti conoscono.

“Da ragazzo ho sempre divorato libri d’avventura, trasponendone poi il contenuto ai luoghi a me familiari. È cosi che il Po raffigurava per me il Mississipi o il Rio delle Amazzoni. Stevenson, Defoe, Conan Doyle, Conrad, Jack London, Melville e tanti altri come loro sono stati i miei vangeli. E quando ho avuto la preparazione per farlo, e i mezzi, mi sono dedicato a verificare l’esattezza di quelle che sovente parevano invenzioni scaturite dalla fantasia”.

(Walter Bonatti Un mondo perduto: viaggio a ritroso nel tempo, Delai editore)


Infatti Walter Bonatti ha avuto la fortuna di vivere due vite. 


Dopo la stagione delle scalate che lo ha reso uno dei protagonisti dell’alpinismo, ha deciso di mettersi in cammino per le regioni più remote e sconosciute del globo. Dall’esplorazione in verticale a quella in orizzontale, come spesso ha sottolineato lui stesso. Bonatti è stato la quinta essenza dell’esploratore al pari di Cristoforo Colombo o James Cook. 


Ma forse Walter Bonatti ha vissuto una terza vita. Infatti il famoso alpinista e reporter ha potuto condividere quei mondi da lui conosciuti in solitaria, con la compagna, l’attrice Rossana Podestà. 


Ed è stato forse così che Rossana Podestà ha potuto vivere la sua seconda vita. Dopo la carriera nel mondo del cinema, l’attrice è stata legata oltre trent’anni a Bonatti e insieme a lui ha esplorato il “suo” Mondo perduto.


Così tanti anni insieme pur provenendo da mondi e storie diversissime. 


Il Re delle Alpi e la Pin up, l’eroe coraggioso e la bella attrice hollywoodiana. Sembra una favola, di quelle di Andersen o dei fratelli Grimm oppure, per i più moderni un film della Disney.   





Tutto cominciò con un’intervista in cui la Podestà disse che per stare su un’isola deserta avrebbe scelto Bonatti, il quale le rispose con una lettera dallo stile pomposo e ottocentesco che stuzzicò l’attrice. Si telefonarono, si incontrarono a Roma. Lui sbagliò il luogo dell’appuntamento e lei lo trovò per caso: stava litigando con un vigile. “Giri il mondo e ti perdi a Roma?”, lo provocò lei. 

“Mio fratello, che era stato istruito per venire a liberarmi da questo sconosciuto, venne sbrigativamente fatto smammare” ha dichiarato poi la Podestà. 

Insomma, fu colpo di fulmine istantaneo e la loro storia durò fino alla morte di Bonatti. La Podestà fu l’unica persona capace di tenergli testa per tre decenni e domare i suoi demoni interiori. 


Una storia d’amore degna di un romanzo di Hemingway. 


Ho sempre ammirato Walter Bonatti, il Re delle Alpi, il ragazzino della Pianura Padana, che sognava seduto sull’argine del Po. E un po’ ho invidiato Rossana Podestà per esserselo accalappiato. Ma ho amato tanto la coppia brillante che erano insieme.


Appuntamento su Rai1 il 12 settembre in prima serata!


Ancora non so se lo sceneggiato Rai mi piacerà, ma so che lo guarderò perché la loro è una storia che merita di essere raccontata e ricordata.

 




martedì 17 agosto 2021

Lo sapete che alle porte di San Giorgio c’è chi trasforma le radici in luce?

Le Radici del Nure è il nome dell’affascinante progetto di Eric Jean Marie Bertola.

Di origini italo-francesi, fresco di pensionamento, Eric ha deciso di dedicarsi a quello che prima era solo un hobby: trasformare vecchie radici di alberi in lampade dal design unico

 

Nato a Plan du Castellet in Provenza Eric fin da piccolo comincia ad armeggiare con pezzi di legno e attrezzi da falegnameria, emulando il nonno materno Henry, artigiano del legno di ulivo.

 

“Ho circa otto anni quando mi armo di un trapano e mi cimento nell’impresa di forare un legno.

Il risultato? Una cicatrice ancora oggi visibile sulla mano, ma la conferma di un amore viscerale per quei pezzi di legno che offrono infinite possibilità all’immaginazione di un bambino e alle mani esperte di un uomo che intende lavorarli e scoprirne i segreti più nascosti”.

Nonno Henry, artigiano del legno di ulivo. 


 


Eric vive a San Giorgio Piacentino, paese di origine del padre. Crescendo continua a guardare incuriosito la natura, la passione nata in quel bambino della Provenza è ancora viva dentro di lui.


Passeggiando lungo il greto del fiume Nure, recupera rami e pezzi di piante che la forza del torrente ha trasportato e ha lasciato prive di vita. Raccoglie le piante dalle forme più strane e dai colori cupi o vivaciNegli anni quello che era nato come la curiosità di un bambino diventa l’interesse di un uomo e si trasforma in competenza. Il desiderio di Eric è di dare una nuova veste a quei pezzi di legno apparentemente senza vita.


Alcune immagini del greto del fiume Nure.


Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma

(Antoine-Laurent de Lavoisier)

 

Eric trasforma questi oggetti grezzi in lampade dal design elegante. I pezzi esposti al pubblico sono dunque il frutto di una ricerca paziente e di una tecnica che nel tempo si è raffinata.  Gli strumenti sono umili e semplici come quelli utilizzati da nonno Henry. Inoltre Eric si serve di un attrezzo di sua invenzione, utile a penetrare il legno in profondità senza spezzarlo per inserirvi il cavo elettrico.

 


Rami in lavorazione che ricordano forme di animali,
si può intravede il collo di un cigno.

Fasi di lavorazione per la creazione di una lampada.

Le lampade hanno nomi suggestivi che evocano il luogo di provenienza dei materiali come ad esempio Sant’ Agata (frazione del Comune di San Giorgio P.no) oppure figure mitologiche come Medusa.




 

Le Opere di Eric saranno esposte dal 5 al 10 settembre a Milano, in zona Navigli, aSalone del Mobile, famosa manifestazione all’avanguardia nel campo del design, che richiama architetti, designer e appassionati da tutto il mondo.

Mentre il 2 e il 3 ottobre le sue lampade saranno in mostra al Castello di Paderna.

 

Eric impiega tempo e fatica per realizzarlema grazie alla sua passione riesce a dare una nuova vita a ciò che per molti è solo uno scarto.

 



Le Radici del Nure ovvero le radici del cuore e della memoria, la storia di una passione coltivata fin dall’infanzia e sedimentata nell’età adulta.

Mi piace pensare che nel mio piccolo anch’io ho dato il mio contributo per dare luce a lampade uniche e inimitabili.

(Eric Jean Marie Bertola)


Alcune bellissime lampade di Eric:















giovedì 21 maggio 2020

Come ricorderò i profumi di Cuba



 
Hotel Ambos Mundos a L'Avana
Non voglio che il mio ricordo di Cuba finisca con la febbre, non mi sembra per niente carino quindi ho deciso di raccontarvi una cosa che mi è capitata appena rientrata in Patria.
Il volo di ritorno atterra verso le 14 a Malpensa e, dopo aver ritirato i bagagli, io e la mamma cerchiamo l’uscita più vicina.
Ad aspettarci, oltre a mio papà, c’è Giovanni, un amico di famiglia.
Appena salite in macchina cominciamo a chiacchierare e io racconto di quanto mi sia piaciuta Cuba.
Sembro un fiume in piena, vorrei raccontare tutto quello che mi è capitato negli ultimi 16 giorni in un’ora e mezza.
Non sono stanca, anche se oramai sono circa 40 ore che sono sveglia, ma è l’adrenalina che m’impedisce di dormire.
Arrivate a casa io tiro fuori dal mio zaino il regalo per la nonna: una boccetta di profumo di Mariposa, il fiore simbolo di Cuba e glielo do subito dicendole che a volte glielo ruberò poi, dopo aver aiutato a scaricare i bagagli, finalmente mi faccio una doccia.
Anche se sono solo le 18, ho una gran fame perché in volo non ho mangiato praticamente niente, così chiedo alla nonna se ci prepara gli anolini in brodo.
Dopo aver stappato una bottiglia di vino e essermi riempita il piatto fondo fino all’orlo comincio a mangiare.
Sento scendere nell’esofago il brodo caldo e subito dopo il gusto intenso e fruttato del vino.
Devo ammetterlo: questo mi è mancato!
Finito di mangiare sono stravolta e, dopo aver portato su per le scale la valigia, fino al primo piano, al nostro appartamento, ed essere finalmente arrivata in camera mia mi lascio cadere a volo d’angelo sul letto.
Sento che potrei addormentarmi ora, ma la mamma si mette ad urlare che non trova il telefono cellulare, come era capitato proprio a L’Avana la settimana precedente.
Dopo che ha cercato per più di dieci minuti nella sua borsa, comincia a correre per casa e a rovistare anche nei miei bagagli.
“Ma sei sicura?” le chiedo “hai controllato in tutte le tasche della borsa? Magari è rimasto in macchina da Giovanni…”
“No, io non l’ho mai tirato fuori dalla borsa in macchina, ne sono sicura!”
“Senti stai tranquilla! Provo a chiamarti e a farlo squillare, così vediamo…”
Compongo il numero con il mio cellulare e avvio la chiamata: suona libero però in casa non sentiamo squillare.
Allora la mamma decide di scendere al piano di sotto per cercare anche in casa della nonna mentre io ritorno in camera mia per controllare ancora una volta nel mio zaino ed è in quel momento che sento squillare il mio cellulare, guardo il display e leggo: mamma.
Magari è Giovanni che ha trovato il telefono in macchina penso, così rispondo:
“Pronto?”
Dopo qualche istante di silenzio, mi risponde una voce maschile con uno strano accento:
“Sono Ernest Hemingway”.
Io, ovviamente, penso che sia uno scherzo anche se non riesco a decifrare di chi sia la voce dall’altro capo del telefono.
Abbozzo un sorriso ironico e dico: “Così lei sarebbe Hemingway!?....Molto divertente!”
“Sorry?....Chiamo dall’Ambos Mundos.
Al bar dell’albergo mi hanno riferito che qualche giorno fa sei passata a cercarmi”.
La voce del mio interlocutore è profonda, quasi baritonale, ma per niente fredda è calda e suadente e mi parla come se ci conoscessimo da sempre.
Parla inglese anche se diverse parole sono in italiano e scandisce lentamente, forse per darmi il tempo di tradurre.
Io non rispondo subito, rimasta a bocca aperta, sono proprio senza parole.
“Hello? Pronto?”
“Si, eccomi! Ci sono”.
Non sapendo cosa dire, mi faccio coraggio e così saluto:
“Buona sera Mr. Hemingway” ignorando che, a causa del fuso orario, a L’Avana è pieno giorno.
Ma lui non sembra badarci troppo, probabilmente immagina il mio disagio: “Chiamami Papa, come fanno tutti! Ti è piaciuta Cuba? L’Avana?”
“Si moltissimo. Non sarei mai voluta tornare.”
“Si anche a me piace e vorrei acquistare una casita qui, ma mia moglie non credo sia troppo d’accordo.”
“Questa, ma alle prossime piacerà…”immediatamente mi metto una mano davanti alla bocca, non so come mi sia uscita.
L’uomo scoppia in una fragorosa risata: “Le prossime? Dici?...E’ vero non sono certo le donne il mio problema, o forse si? Mi risulta difficile amarne solo una.”
“Già!”
Avrei un milione di domande da fare, ma dalla mia bocca escono solo poche parole così bisbiglio qualcosa come: “Papa ti voglio bene! Ho letto un tuo romanzo in un momento difficile della mia vita e da quel momento non mi hai più lasciata.”
“Vedi Cat…non c’è nessun amico più leale di un libro.”
“Tu sei il mio migliore amico. I tuoi libri mi hanno cambiato la vita. Mi hai insegnato a vedere la bellezza in ogni cosa anche in quelle che mai avrei potuto immaginare, in quelle più piccole e apparentemente banali…Ma ti prego non chiamarmi così.”
“Cat? Perché?”
“Perché un idiota mi chiamava così e perché mi ricorda la tua Cathrine in Addio alle armi che non ha avuto vita facile.”
“Capisco! La vita spezza molti e poi alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati. E’ sbagliato giudicare qualcuno in base alle persone che frequenta.
Come vuoi essere chiamata allora cara?”
“ Caty.”
“Ok cara Caty!
Mi hanno detto che ti piace scrivere, è vero?”
“Si mi piace, sento che riesco a esprimere me stessa o per lo meno quello che mi piace di me.”
“Cosa scrivi?”
“Una specie di diario (in quale altro modo potrei descrivere un blog a un uomo che mi sta telefonando da L’Avana degli anni 30?) nel quale scrivo brevi articoli riguardanti diversi argomenti.”
Dopo un breve silenzio Papa continua: “Mi hanno detto anche che suoni?”
“Si, ma modestamente.”
“Ecco scrivere è un po’ come comporre e suonare allo stesso tempo.
Ci vuole metodo e abnegazione.
E’ un lavoro artigianale.
Decidi tu cosa raccontare, da dove partire e dove arrivare.
Si dice che le parole prendano forma dalla penna di uno scrittore.”
“Le mie no, io non potrei mai considerarmi una scrittrice…”
“Smettila di dire che non lo stai facendo perché ti piace pensare che un giorno potresti diventarlo.
Scrivere è difficile.
Tutti possono farlo, a differenza di altre forme espressive, e questo è quello che rende tutto più semplice, ma anche più subdolo.
Perché tutti pensano che non serva studiare, applicarsi, allenarsi, buttare tutto e ricominciare.
Scrivere un buon pezzo è un po’ come andare a pesca.
Quando il pesce abbocca, non devi strattonarlo altrimenti la lenza si spezza, devi dargli corda e poi piano riavvolgerla.
E’ un lavoro di pazienza.
…Magari un giorno ti porterò a pescare.”
 “Ok, ma comporre e suonare insieme non è facile e credo che quasi nessuno ci riesca, come non tutti possono scrivere bene.”
“Vero, ma a volte solo non è giornata per scrivere. Capita a tutti, anche a me e quando mi succede io mi siedo e mi verso un whisky.
Sono convinto che non si debba mai rimandare di aprire una buona bottiglia di whisky o di baciare una bella ragazza.”
A quelle parole, anche se non credo si riferiscano a me, arrossisco e penso che ormai non ho più dubbi: l’uomo all’altro capo del telefono è lo scrittore più geniale del 900, è Papa.
Continuo ad ascoltare in silenzio.
“Una storia va legata, tessuta, se no perché si parla di trama? E anche una giornata qualsiasi ha la sua. Poi leggi, rileggi e rileggi ancora il giorno dopo e vedrai il risultato.”
Così, senza interromperlo, vado in cucina e dalla credenza prendo una bottiglia di Jack Daniel’s che in casa nessuno beve tranne me nelle occasioni speciali, come fai a bere quella robaccia amara? mi ha chiesto spesso la mamma.
Me ne verso un bicchierino e dopo il primo sorso provo subito una sensazione di caldo avvolgente, prima sulla lingua e poi scendere fino alla pancia.
E’ in quel momento che sento il calore del corpo di Papa, le sue braccia mi cingono la vita e mi stringono in un abbraccio che mi fa trattenere il fiato.
Riesco quasi a sentire il suo odore: un misto di sapone di Marsiglia e salsedine.
Respiro a fondo e non riesco a trattenere le lacrime.
Un trillio sommesso interrompe bruscamente quella sensazione e mi ritrovo catapultata nel mio letto, abbracciata al cuscino.
Mi metto seduta e sento la voce di mia madre provenire dall’altra stanza: “Si Francesca. Siamo arrivate ieri. Tutto bene. Quando verremo a trovarvi, vi racconteremo.”
Poi la mamma compare sulla soglia della mia stanza, mi guarda e dice: “Buongiorno carissima. Era la zia al telefono, voleva sapere com’è andato il rientro, le ho detto che stavi ancora dormendo.
Ieri sera ti sei addormentata senza neanche infilarti sotto le coperte, così ti ho messo io un panno sopra per non svegliarti.
…Ma stai piangendo?”
“No. Ho starnutiti un paio di volte, forse un po’ di polvere.
Quanto ho dormito?”
“Quasi dodici ore.”
Bene, adesso per un mese non dormirò più penso.
Poi subito il mio pensiero va a Papa e a tutto quello che mi ha detto, mi sento ancora un po’ confusa, spaesata e non mi è chiaro cosa sia successo.
Dopo qualche minuto mi viene in mente la storia del cellulare e chiedo: “Il cellulare?
L’hai trovato?”
“Si, era dentro alla scatola dei souvenir di Hemingway, perché mi si era aperta la bottiglietta d’acqua in borsa e non volevo bagnarlo.”
Le sorrido, riabbraccio il cuscino e mi rimetto sdraiata sul letto, mi stropiccio gli occhi e sento che le mie labbra sanno di whisky.
Un profumo di dolce proviene dalla cucina, guardo mia madre con espressione interrogativa e le chiedo cosa sia quel buon odore.
Lei risponde: “Dato che mi sono alzata presto, ho preparato una torta.”
Così, ancora un po’ frastornata, cerco le pantofole e quando le trovo le infilo alla rinfusa.
Mi alzo e, dopo aver dato un bacio sulla guancia alla mamma, mi dirigo in cucina a prepararmi il caffè pronta a raccontarvi delle meraviglie di Cuba.



domenica 10 maggio 2020

Eccoci arrivati alla fine



Giorno 16: quando dicono che nulla è indispensabile, ma tutto è necessario

Venerdì mattina la mamma sta meglio quindi decidiamo di uscire e andare a fare colazione al ristorante dell’albergo, ma dopo aver preso un caffè e qualche biscotto rientriamo in camera perché oggi sono io che non mi sento in forma.
Rebeca, la donna delle pulizie sta già rifacendo la nostra camera e così decidiamo di lasciarla finire prima di rientrare per distenderci ancora un po’.
E’ ormai chiaro che ho la febbre, la mamma si preoccupa subito per il volo di rientro del giorno seguente e, dopo aver insistito diverse volte, riesce a convincermi a farmi visitare dal medico che è di turno all’ambulatorio del centro sportivo.
Arrivate all’ambulatorio, ci apre la porta un uomo mulatto sulla cinquantina, alto e robusto con un paio di baffi neri e folti.
Il dottore ci fa accomodare, mi prova la febbre e la pressione e, dopo aver sentenziato che si tratta di febbre da insolazione, dà indicazioni all’infermiera di preparare una flebo con sali minerali.
La donna, una simpatica signora piccoletta e paffutella mi sorride e mi dice: “Vamos querida.”.
La flebo non è una passeggiata, ma il dottore, che all’inizio mi è parso un po’ burbero, mi strizza l’occhio, mi dice di portare pazienza e che in poche ore mi sentirò meglio. Dopo avermi dato altri integratori da prendere per qualche giorno il medico ci saluta e mi raccomanda di non andare in spiaggia oggi e di bere tanta acqua.




Verso le 10.30 siamo di ritorno al nostro bungalow e Rebeca ha finito ed è già passata alle casette successive.
Appena entriamo notiamo che la ragazza ci ha lasciato sui letti gli asciugamani puliti adagiandoli sui materassi a formare due cigni e sopra ha lasciato un biglietto con scritto: ”Espero que estés bien pronto!”
Mi scappa un sorriso pensando a tutte queste gentilezze, tipiche del popolo cubano.
Durante questi giorni mi è capitato di essere fermata per strada da persone che, pur non capendo la mia lingua, volevano consigliarmi, aiutarmi o solamente farmi un saluto, offrirmi qualcosa e regalarmi un sorriso.
La scena più comica di questi giorni mi è capitata a L’Avana: la mamma si è allontanata da me per recuperare il cellulare che aveva lasciato in un bar in cui eravamo state un’oretta prima. Non vedendola tornare un taxista mi ha aiutata a rintracciarla dato che si era persa, a causa del suo senso dell’orientamento quasi azzerato, anche se questo lei non lo ammetterà mai.







Verso sera, dopo aver preso una tachipirina, come mi aveva prescritto il dottore ed essermi riposata, decido di approfittare del fatto che sto meglio per preparare i bagagli.
Prima di partire ero indecisa su quale valigia utilizzare: se quella più grande dove avrei potuto riporre più cose oppure quella, che poi ho scelto, più piccola ma più pratica nei continui spostamenti.
Durante questi giorni sono stata meticolosa nel comprare
souvenir per evitare che quando fosse stato il momento di rifare la valigia non riuscissi a chiuderla, invece mi accorgo che non ho alcun problema di spazio.
Infatti per lasciare un ricordo di me a Maria Jiménez, ad Ariel, a Carlos, a Inés ed altre persone incontrate durante questi quindici giorni ho deciso di lasciare ad ognuno qualcosa di mio: un braccialetto, delle magliette, un portachiavi di pezza che tengo sempre con me come porta fortuna e altri oggetti.
Così mi ritrovo con molto più spazio libero in valigia dove poter porre i regali e i ricordi che porterò agli amici.





Giorno 17: la chiave della felicità

La mattina seguente decidiamo di passare le ultime ore in spiaggia, all’ombra delle palme.
Non vorrei mai dovermene andare e vorrei restare qui sdraiata, cullata dal rumore del vento e del mare, ma alle 11 torniamo verso la nostra camera per cercare Rebeca perché vogliamo salutarla.
Quando la troviamo lei ci abbraccia e ci saluta affettuosamente e io le lascio un paio di sandali bianchi, che mi ero portata per uscire la sera, che credo starebbero bene su di lei e sono quasi certa che anche come misura le vadano bene.
Rebeca ha la carnagione ambrata e gli occhi verdi e a seconda della luce i contorni dell’iride sono dorati così penso che le avrei voluto regalare una matita per gli occhi turchese comprata durante le vacanze di Natale, che poi ho messo solo un paio di volte perché non dava l’effetto sperato su di me, mentre sul suo bel viso starebbe benissimo e ricorderebbe i colori del suo mare, ma purtroppo non l’ho messa in valigia.


Verso le 18 abbiamo il taxi che ci accompagnerà all’aeroporto di Holguín, e dopo aver lasciato alla reception dell’hotel alcuni medicinali che saranno donati all’ospedale della città siamo pronte per partire.
Durante il volo in aereo io dormo pochissimo e approfitto di queste ore per pensare ancora una volta a tutti i ricordi belli che mi porterò a casa.


Penso che viaggiare ci permetta di lasciare alle spalle i pesi che quotidianamente ci affliggono per partire alla scoperta di nuovi mondi e diversi modi di vivere; questo non significa voler evitare le responsabilità che abbiamo, ma imparare ad affrontarle con occhi nuovi e, secondo me, è proprio questa la chiave della felicità.




Appena atterriamo a Malpensa, il 23 febbraio scorso, veniamo sbalzate in questa realtà surreale e ovattata che ormai sta colpendo il Mondo intero a causa della pandemia da Covid-19.

Così durante i giorni trascorsi chiusa in casa, per la quarantena mi è capitato di ripensare con malinconia ai viaggi passati, ma anche di fantasticare su quelli che farò, perché non vedo l’ora di ripartire.