giovedì 21 maggio 2020

Come ricorderò i profumi di Cuba



 
Hotel Ambos Mundos a L'Avana
Non voglio che il mio ricordo di Cuba finisca con la febbre, non mi sembra per niente carino quindi ho deciso di raccontarvi una cosa che mi è capitata appena rientrata in Patria.
Il volo di ritorno atterra verso le 14 a Malpensa e, dopo aver ritirato i bagagli, io e la mamma cerchiamo l’uscita più vicina.
Ad aspettarci, oltre a mio papà, c’è Giovanni, un amico di famiglia.
Appena salite in macchina cominciamo a chiacchierare e io racconto di quanto mi sia piaciuta Cuba.
Sembro un fiume in piena, vorrei raccontare tutto quello che mi è capitato negli ultimi 16 giorni in un’ora e mezza.
Non sono stanca, anche se oramai sono circa 40 ore che sono sveglia, ma è l’adrenalina che m’impedisce di dormire.
Arrivate a casa io tiro fuori dal mio zaino il regalo per la nonna: una boccetta di profumo di Mariposa, il fiore simbolo di Cuba e glielo do subito dicendole che a volte glielo ruberò poi, dopo aver aiutato a scaricare i bagagli, finalmente mi faccio una doccia.
Anche se sono solo le 18, ho una gran fame perché in volo non ho mangiato praticamente niente, così chiedo alla nonna se ci prepara gli anolini in brodo.
Dopo aver stappato una bottiglia di vino e essermi riempita il piatto fondo fino all’orlo comincio a mangiare.
Sento scendere nell’esofago il brodo caldo e subito dopo il gusto intenso e fruttato del vino.
Devo ammetterlo: questo mi è mancato!
Finito di mangiare sono stravolta e, dopo aver portato su per le scale la valigia, fino al primo piano, al nostro appartamento, ed essere finalmente arrivata in camera mia mi lascio cadere a volo d’angelo sul letto.
Sento che potrei addormentarmi ora, ma la mamma si mette ad urlare che non trova il telefono cellulare, come era capitato proprio a L’Avana la settimana precedente.
Dopo che ha cercato per più di dieci minuti nella sua borsa, comincia a correre per casa e a rovistare anche nei miei bagagli.
“Ma sei sicura?” le chiedo “hai controllato in tutte le tasche della borsa? Magari è rimasto in macchina da Giovanni…”
“No, io non l’ho mai tirato fuori dalla borsa in macchina, ne sono sicura!”
“Senti stai tranquilla! Provo a chiamarti e a farlo squillare, così vediamo…”
Compongo il numero con il mio cellulare e avvio la chiamata: suona libero però in casa non sentiamo squillare.
Allora la mamma decide di scendere al piano di sotto per cercare anche in casa della nonna mentre io ritorno in camera mia per controllare ancora una volta nel mio zaino ed è in quel momento che sento squillare il mio cellulare, guardo il display e leggo: mamma.
Magari è Giovanni che ha trovato il telefono in macchina penso, così rispondo:
“Pronto?”
Dopo qualche istante di silenzio, mi risponde una voce maschile con uno strano accento:
“Sono Ernest Hemingway”.
Io, ovviamente, penso che sia uno scherzo anche se non riesco a decifrare di chi sia la voce dall’altro capo del telefono.
Abbozzo un sorriso ironico e dico: “Così lei sarebbe Hemingway!?....Molto divertente!”
“Sorry?....Chiamo dall’Ambos Mundos.
Al bar dell’albergo mi hanno riferito che qualche giorno fa sei passata a cercarmi”.
La voce del mio interlocutore è profonda, quasi baritonale, ma per niente fredda è calda e suadente e mi parla come se ci conoscessimo da sempre.
Parla inglese anche se diverse parole sono in italiano e scandisce lentamente, forse per darmi il tempo di tradurre.
Io non rispondo subito, rimasta a bocca aperta, sono proprio senza parole.
“Hello? Pronto?”
“Si, eccomi! Ci sono”.
Non sapendo cosa dire, mi faccio coraggio e così saluto:
“Buona sera Mr. Hemingway” ignorando che, a causa del fuso orario, a L’Avana è pieno giorno.
Ma lui non sembra badarci troppo, probabilmente immagina il mio disagio: “Chiamami Papa, come fanno tutti! Ti è piaciuta Cuba? L’Avana?”
“Si moltissimo. Non sarei mai voluta tornare.”
“Si anche a me piace e vorrei acquistare una casita qui, ma mia moglie non credo sia troppo d’accordo.”
“Questa, ma alle prossime piacerà…”immediatamente mi metto una mano davanti alla bocca, non so come mi sia uscita.
L’uomo scoppia in una fragorosa risata: “Le prossime? Dici?...E’ vero non sono certo le donne il mio problema, o forse si? Mi risulta difficile amarne solo una.”
“Già!”
Avrei un milione di domande da fare, ma dalla mia bocca escono solo poche parole così bisbiglio qualcosa come: “Papa ti voglio bene! Ho letto un tuo romanzo in un momento difficile della mia vita e da quel momento non mi hai più lasciata.”
“Vedi Cat…non c’è nessun amico più leale di un libro.”
“Tu sei il mio migliore amico. I tuoi libri mi hanno cambiato la vita. Mi hai insegnato a vedere la bellezza in ogni cosa anche in quelle che mai avrei potuto immaginare, in quelle più piccole e apparentemente banali…Ma ti prego non chiamarmi così.”
“Cat? Perché?”
“Perché un idiota mi chiamava così e perché mi ricorda la tua Cathrine in Addio alle armi che non ha avuto vita facile.”
“Capisco! La vita spezza molti e poi alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati. E’ sbagliato giudicare qualcuno in base alle persone che frequenta.
Come vuoi essere chiamata allora cara?”
“ Caty.”
“Ok cara Caty!
Mi hanno detto che ti piace scrivere, è vero?”
“Si mi piace, sento che riesco a esprimere me stessa o per lo meno quello che mi piace di me.”
“Cosa scrivi?”
“Una specie di diario (in quale altro modo potrei descrivere un blog a un uomo che mi sta telefonando da L’Avana degli anni 30?) nel quale scrivo brevi articoli riguardanti diversi argomenti.”
Dopo un breve silenzio Papa continua: “Mi hanno detto anche che suoni?”
“Si, ma modestamente.”
“Ecco scrivere è un po’ come comporre e suonare allo stesso tempo.
Ci vuole metodo e abnegazione.
E’ un lavoro artigianale.
Decidi tu cosa raccontare, da dove partire e dove arrivare.
Si dice che le parole prendano forma dalla penna di uno scrittore.”
“Le mie no, io non potrei mai considerarmi una scrittrice…”
“Smettila di dire che non lo stai facendo perché ti piace pensare che un giorno potresti diventarlo.
Scrivere è difficile.
Tutti possono farlo, a differenza di altre forme espressive, e questo è quello che rende tutto più semplice, ma anche più subdolo.
Perché tutti pensano che non serva studiare, applicarsi, allenarsi, buttare tutto e ricominciare.
Scrivere un buon pezzo è un po’ come andare a pesca.
Quando il pesce abbocca, non devi strattonarlo altrimenti la lenza si spezza, devi dargli corda e poi piano riavvolgerla.
E’ un lavoro di pazienza.
…Magari un giorno ti porterò a pescare.”
 “Ok, ma comporre e suonare insieme non è facile e credo che quasi nessuno ci riesca, come non tutti possono scrivere bene.”
“Vero, ma a volte solo non è giornata per scrivere. Capita a tutti, anche a me e quando mi succede io mi siedo e mi verso un whisky.
Sono convinto che non si debba mai rimandare di aprire una buona bottiglia di whisky o di baciare una bella ragazza.”
A quelle parole, anche se non credo si riferiscano a me, arrossisco e penso che ormai non ho più dubbi: l’uomo all’altro capo del telefono è lo scrittore più geniale del 900, è Papa.
Continuo ad ascoltare in silenzio.
“Una storia va legata, tessuta, se no perché si parla di trama? E anche una giornata qualsiasi ha la sua. Poi leggi, rileggi e rileggi ancora il giorno dopo e vedrai il risultato.”
Così, senza interromperlo, vado in cucina e dalla credenza prendo una bottiglia di Jack Daniel’s che in casa nessuno beve tranne me nelle occasioni speciali, come fai a bere quella robaccia amara? mi ha chiesto spesso la mamma.
Me ne verso un bicchierino e dopo il primo sorso provo subito una sensazione di caldo avvolgente, prima sulla lingua e poi scendere fino alla pancia.
E’ in quel momento che sento il calore del corpo di Papa, le sue braccia mi cingono la vita e mi stringono in un abbraccio che mi fa trattenere il fiato.
Riesco quasi a sentire il suo odore: un misto di sapone di Marsiglia e salsedine.
Respiro a fondo e non riesco a trattenere le lacrime.
Un trillio sommesso interrompe bruscamente quella sensazione e mi ritrovo catapultata nel mio letto, abbracciata al cuscino.
Mi metto seduta e sento la voce di mia madre provenire dall’altra stanza: “Si Francesca. Siamo arrivate ieri. Tutto bene. Quando verremo a trovarvi, vi racconteremo.”
Poi la mamma compare sulla soglia della mia stanza, mi guarda e dice: “Buongiorno carissima. Era la zia al telefono, voleva sapere com’è andato il rientro, le ho detto che stavi ancora dormendo.
Ieri sera ti sei addormentata senza neanche infilarti sotto le coperte, così ti ho messo io un panno sopra per non svegliarti.
…Ma stai piangendo?”
“No. Ho starnutiti un paio di volte, forse un po’ di polvere.
Quanto ho dormito?”
“Quasi dodici ore.”
Bene, adesso per un mese non dormirò più penso.
Poi subito il mio pensiero va a Papa e a tutto quello che mi ha detto, mi sento ancora un po’ confusa, spaesata e non mi è chiaro cosa sia successo.
Dopo qualche minuto mi viene in mente la storia del cellulare e chiedo: “Il cellulare?
L’hai trovato?”
“Si, era dentro alla scatola dei souvenir di Hemingway, perché mi si era aperta la bottiglietta d’acqua in borsa e non volevo bagnarlo.”
Le sorrido, riabbraccio il cuscino e mi rimetto sdraiata sul letto, mi stropiccio gli occhi e sento che le mie labbra sanno di whisky.
Un profumo di dolce proviene dalla cucina, guardo mia madre con espressione interrogativa e le chiedo cosa sia quel buon odore.
Lei risponde: “Dato che mi sono alzata presto, ho preparato una torta.”
Così, ancora un po’ frastornata, cerco le pantofole e quando le trovo le infilo alla rinfusa.
Mi alzo e, dopo aver dato un bacio sulla guancia alla mamma, mi dirigo in cucina a prepararmi il caffè pronta a raccontarvi delle meraviglie di Cuba.



domenica 10 maggio 2020

Eccoci arrivati alla fine



Giorno 16: quando dicono che nulla è indispensabile, ma tutto è necessario

Venerdì mattina la mamma sta meglio quindi decidiamo di uscire e andare a fare colazione al ristorante dell’albergo, ma dopo aver preso un caffè e qualche biscotto rientriamo in camera perché oggi sono io che non mi sento in forma.
Rebeca, la donna delle pulizie sta già rifacendo la nostra camera e così decidiamo di lasciarla finire prima di rientrare per distenderci ancora un po’.
E’ ormai chiaro che ho la febbre, la mamma si preoccupa subito per il volo di rientro del giorno seguente e, dopo aver insistito diverse volte, riesce a convincermi a farmi visitare dal medico che è di turno all’ambulatorio del centro sportivo.
Arrivate all’ambulatorio, ci apre la porta un uomo mulatto sulla cinquantina, alto e robusto con un paio di baffi neri e folti.
Il dottore ci fa accomodare, mi prova la febbre e la pressione e, dopo aver sentenziato che si tratta di febbre da insolazione, dà indicazioni all’infermiera di preparare una flebo con sali minerali.
La donna, una simpatica signora piccoletta e paffutella mi sorride e mi dice: “Vamos querida.”.
La flebo non è una passeggiata, ma il dottore, che all’inizio mi è parso un po’ burbero, mi strizza l’occhio, mi dice di portare pazienza e che in poche ore mi sentirò meglio. Dopo avermi dato altri integratori da prendere per qualche giorno il medico ci saluta e mi raccomanda di non andare in spiaggia oggi e di bere tanta acqua.




Verso le 10.30 siamo di ritorno al nostro bungalow e Rebeca ha finito ed è già passata alle casette successive.
Appena entriamo notiamo che la ragazza ci ha lasciato sui letti gli asciugamani puliti adagiandoli sui materassi a formare due cigni e sopra ha lasciato un biglietto con scritto: ”Espero que estés bien pronto!”
Mi scappa un sorriso pensando a tutte queste gentilezze, tipiche del popolo cubano.
Durante questi giorni mi è capitato di essere fermata per strada da persone che, pur non capendo la mia lingua, volevano consigliarmi, aiutarmi o solamente farmi un saluto, offrirmi qualcosa e regalarmi un sorriso.
La scena più comica di questi giorni mi è capitata a L’Avana: la mamma si è allontanata da me per recuperare il cellulare che aveva lasciato in un bar in cui eravamo state un’oretta prima. Non vedendola tornare un taxista mi ha aiutata a rintracciarla dato che si era persa, a causa del suo senso dell’orientamento quasi azzerato, anche se questo lei non lo ammetterà mai.







Verso sera, dopo aver preso una tachipirina, come mi aveva prescritto il dottore ed essermi riposata, decido di approfittare del fatto che sto meglio per preparare i bagagli.
Prima di partire ero indecisa su quale valigia utilizzare: se quella più grande dove avrei potuto riporre più cose oppure quella, che poi ho scelto, più piccola ma più pratica nei continui spostamenti.
Durante questi giorni sono stata meticolosa nel comprare
souvenir per evitare che quando fosse stato il momento di rifare la valigia non riuscissi a chiuderla, invece mi accorgo che non ho alcun problema di spazio.
Infatti per lasciare un ricordo di me a Maria Jiménez, ad Ariel, a Carlos, a Inés ed altre persone incontrate durante questi quindici giorni ho deciso di lasciare ad ognuno qualcosa di mio: un braccialetto, delle magliette, un portachiavi di pezza che tengo sempre con me come porta fortuna e altri oggetti.
Così mi ritrovo con molto più spazio libero in valigia dove poter porre i regali e i ricordi che porterò agli amici.





Giorno 17: la chiave della felicità

La mattina seguente decidiamo di passare le ultime ore in spiaggia, all’ombra delle palme.
Non vorrei mai dovermene andare e vorrei restare qui sdraiata, cullata dal rumore del vento e del mare, ma alle 11 torniamo verso la nostra camera per cercare Rebeca perché vogliamo salutarla.
Quando la troviamo lei ci abbraccia e ci saluta affettuosamente e io le lascio un paio di sandali bianchi, che mi ero portata per uscire la sera, che credo starebbero bene su di lei e sono quasi certa che anche come misura le vadano bene.
Rebeca ha la carnagione ambrata e gli occhi verdi e a seconda della luce i contorni dell’iride sono dorati così penso che le avrei voluto regalare una matita per gli occhi turchese comprata durante le vacanze di Natale, che poi ho messo solo un paio di volte perché non dava l’effetto sperato su di me, mentre sul suo bel viso starebbe benissimo e ricorderebbe i colori del suo mare, ma purtroppo non l’ho messa in valigia.


Verso le 18 abbiamo il taxi che ci accompagnerà all’aeroporto di Holguín, e dopo aver lasciato alla reception dell’hotel alcuni medicinali che saranno donati all’ospedale della città siamo pronte per partire.
Durante il volo in aereo io dormo pochissimo e approfitto di queste ore per pensare ancora una volta a tutti i ricordi belli che mi porterò a casa.


Penso che viaggiare ci permetta di lasciare alle spalle i pesi che quotidianamente ci affliggono per partire alla scoperta di nuovi mondi e diversi modi di vivere; questo non significa voler evitare le responsabilità che abbiamo, ma imparare ad affrontarle con occhi nuovi e, secondo me, è proprio questa la chiave della felicità.




Appena atterriamo a Malpensa, il 23 febbraio scorso, veniamo sbalzate in questa realtà surreale e ovattata che ormai sta colpendo il Mondo intero a causa della pandemia da Covid-19.

Così durante i giorni trascorsi chiusa in casa, per la quarantena mi è capitato di ripensare con malinconia ai viaggi passati, ma anche di fantasticare su quelli che farò, perché non vedo l’ora di ripartire.