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Hotel Ambos Mundos a L'Avana |
Non voglio che il mio ricordo di
Cuba finisca con la febbre, non mi sembra per niente carino quindi ho deciso di
raccontarvi una cosa che mi è capitata appena rientrata in Patria.
Il volo di ritorno atterra verso le
14 a Malpensa e, dopo aver ritirato i bagagli, io e la mamma cerchiamo l’uscita
più vicina.
Ad aspettarci, oltre a mio papà,
c’è Giovanni, un amico di famiglia.
Appena salite in macchina
cominciamo a chiacchierare e io racconto di quanto mi sia piaciuta Cuba.
Sembro un fiume in piena, vorrei
raccontare tutto quello che mi è capitato negli ultimi 16 giorni in un’ora e
mezza.
Non sono stanca, anche se oramai
sono circa 40 ore che sono sveglia, ma è l’adrenalina che m’impedisce di
dormire.
Arrivate a casa io tiro fuori dal
mio zaino il regalo per la nonna: una boccetta di profumo di Mariposa, il fiore simbolo di Cuba e glielo
do subito dicendole che a volte glielo ruberò poi, dopo aver aiutato a scaricare
i bagagli, finalmente mi faccio una doccia.
Anche se sono solo le 18, ho una
gran fame perché in volo non ho mangiato praticamente niente, così chiedo alla
nonna se ci prepara gli anolini in brodo.
Dopo aver stappato una bottiglia di
vino e essermi riempita il piatto fondo fino all’orlo comincio a mangiare.
Sento scendere nell’esofago il
brodo caldo e subito dopo il gusto intenso e fruttato del vino.
Devo ammetterlo: questo mi è
mancato!
Finito di mangiare sono stravolta
e, dopo aver portato su per le scale la valigia, fino al primo piano, al nostro
appartamento, ed essere finalmente arrivata in camera mia mi lascio cadere a
volo d’angelo sul letto.
Sento che potrei addormentarmi ora,
ma la mamma si mette ad urlare che non trova il telefono cellulare, come era
capitato proprio a L’Avana la settimana precedente.
Dopo che ha cercato per più di
dieci minuti nella sua borsa, comincia a correre per casa e a rovistare anche
nei miei bagagli.
“Ma sei sicura?” le chiedo “hai
controllato in tutte le tasche della borsa? Magari è rimasto in macchina da
Giovanni…”
“No, io non l’ho mai tirato fuori
dalla borsa in macchina, ne sono sicura!”
“Senti stai tranquilla! Provo a
chiamarti e a farlo squillare, così vediamo…”
Compongo il numero con il mio
cellulare e avvio la chiamata: suona libero però in casa non sentiamo
squillare.
Allora la mamma decide di scendere
al piano di sotto per cercare anche in casa della nonna mentre io ritorno in
camera mia per controllare ancora una volta nel mio zaino ed è in quel momento
che sento squillare il mio cellulare, guardo il display e leggo: mamma.
Magari
è Giovanni che ha trovato il telefono in macchina penso, così rispondo:
“Pronto?”
Dopo qualche istante di silenzio, mi
risponde una voce maschile con uno strano accento:
“Sono Ernest Hemingway”.
Io, ovviamente, penso che sia uno
scherzo anche se non riesco a decifrare di chi sia la voce dall’altro capo del
telefono.
Abbozzo un sorriso ironico e dico:
“Così lei sarebbe Hemingway!?....Molto divertente!”
“Sorry?....Chiamo dall’Ambos
Mundos.
Al bar dell’albergo mi hanno
riferito che qualche giorno fa sei passata a cercarmi”.
La voce del mio interlocutore è
profonda, quasi baritonale, ma per niente fredda è calda e suadente e mi parla
come se ci conoscessimo da sempre.
Parla inglese anche se diverse
parole sono in italiano e scandisce lentamente, forse per darmi il tempo di
tradurre.
Io non rispondo subito, rimasta a
bocca aperta, sono proprio senza parole.
“Hello? Pronto?”
“Si, eccomi! Ci sono”.
Non sapendo cosa dire, mi faccio
coraggio e così saluto:
“Buona sera Mr. Hemingway” ignorando
che, a causa del fuso orario, a L’Avana è pieno giorno.
Ma lui non sembra badarci troppo,
probabilmente immagina il mio disagio: “Chiamami Papa, come fanno tutti! Ti è
piaciuta Cuba? L’Avana?”
“Si moltissimo. Non sarei mai
voluta tornare.”
“Si anche a me piace e vorrei
acquistare una casita qui, ma mia
moglie non credo sia troppo d’accordo.”
“Questa, ma alle prossime
piacerà…”immediatamente mi metto una mano davanti alla bocca, non so come mi
sia uscita.
L’uomo scoppia in una fragorosa
risata: “Le prossime? Dici?...E’ vero non sono certo le donne il mio problema,
o forse si? Mi risulta difficile amarne solo una.”
“Già!”
Avrei un milione di domande da
fare, ma dalla mia bocca escono solo poche parole così bisbiglio qualcosa come:
“Papa ti voglio bene! Ho letto un tuo romanzo in un momento difficile della mia
vita e da quel momento non mi hai più lasciata.”
“Vedi Cat…non c’è nessun amico più
leale di un libro.”
“Tu sei il mio migliore amico. I
tuoi libri mi hanno cambiato la vita. Mi hai insegnato a vedere la bellezza in
ogni cosa anche in quelle che mai avrei potuto immaginare, in quelle più
piccole e apparentemente banali…Ma ti prego non chiamarmi così.”
“Cat? Perché?”
“Perché un idiota mi chiamava così
e perché mi ricorda la tua Cathrine in Addio
alle armi che non ha avuto vita facile.”
“Capisco! La vita spezza molti e
poi alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati. E’ sbagliato giudicare
qualcuno in base alle persone che frequenta.
Come vuoi essere chiamata allora
cara?”
“ Caty.”
“Ok cara Caty!
Mi hanno detto che ti piace
scrivere, è vero?”
“Si mi piace, sento che riesco a
esprimere me stessa o per lo meno quello che mi piace di me.”
“Cosa scrivi?”
“Una specie di diario (in quale
altro modo potrei descrivere un blog a un uomo che mi sta telefonando da
L’Avana degli anni 30?) nel quale scrivo brevi articoli riguardanti diversi
argomenti.”
Dopo un breve silenzio Papa
continua: “Mi hanno detto anche che suoni?”
“Si, ma modestamente.”
“Ecco scrivere è un po’ come
comporre e suonare allo stesso tempo.
Ci vuole metodo e abnegazione.
E’ un lavoro artigianale.
Decidi tu cosa raccontare, da dove
partire e dove arrivare.
Si dice che le parole prendano forma
dalla penna di uno scrittore.”
“Le mie no, io non potrei mai
considerarmi una scrittrice…”
“Smettila di dire che non lo stai
facendo perché ti piace pensare che un giorno potresti diventarlo.
Scrivere è difficile.
Tutti possono farlo, a differenza di
altre forme espressive, e questo è quello che rende tutto più semplice, ma
anche più subdolo.
Perché tutti pensano che non serva
studiare, applicarsi, allenarsi, buttare tutto e ricominciare.
Scrivere un buon pezzo è un po’
come andare a pesca.
Quando il pesce abbocca, non devi
strattonarlo altrimenti la lenza si spezza, devi dargli corda e poi piano
riavvolgerla.
E’ un lavoro di pazienza.
…Magari un giorno ti porterò a
pescare.”
“Ok, ma comporre e suonare insieme non è
facile e credo che quasi nessuno ci riesca, come non tutti possono scrivere
bene.”
“Vero, ma a volte solo non è
giornata per scrivere. Capita a tutti, anche a me e quando mi succede io mi siedo
e mi verso un whisky.
Sono convinto che non si debba mai
rimandare di aprire una buona bottiglia di whisky o di baciare una bella
ragazza.”
A quelle parole, anche se non credo
si riferiscano a me, arrossisco e penso che ormai non ho più dubbi: l’uomo
all’altro capo del telefono è lo scrittore più geniale del 900, è Papa.
Continuo ad ascoltare in silenzio.
“Una storia va legata, tessuta, se
no perché si parla di trama? E anche una giornata qualsiasi ha la sua. Poi
leggi, rileggi e rileggi ancora il giorno dopo e vedrai il risultato.”
Così, senza interromperlo, vado in
cucina e dalla credenza prendo una bottiglia di Jack Daniel’s che in casa
nessuno beve tranne me nelle occasioni speciali, come fai a bere quella robaccia amara? mi ha chiesto spesso la
mamma.
Me ne verso un bicchierino e dopo
il primo sorso provo subito una sensazione di caldo avvolgente, prima sulla
lingua e poi scendere fino alla pancia.
E’ in quel momento che sento il
calore del corpo di Papa, le sue braccia mi cingono la vita e mi stringono in un
abbraccio che mi fa trattenere il fiato.
Riesco quasi a sentire il suo
odore: un misto di sapone di Marsiglia e salsedine.
Respiro a fondo e non riesco a
trattenere le lacrime.
Un trillio sommesso interrompe
bruscamente quella sensazione e mi ritrovo catapultata nel mio letto,
abbracciata al cuscino.
Mi metto seduta e sento la voce di
mia madre provenire dall’altra stanza: “Si Francesca. Siamo arrivate ieri. Tutto
bene. Quando verremo a trovarvi, vi racconteremo.”
Poi la mamma compare sulla soglia
della mia stanza, mi guarda e dice: “Buongiorno carissima. Era la zia al
telefono, voleva sapere com’è andato il rientro, le ho detto che stavi ancora
dormendo.
Ieri sera ti sei addormentata senza
neanche infilarti sotto le coperte, così ti ho messo io un panno sopra per non
svegliarti.
…Ma stai piangendo?”
“No. Ho starnutiti un paio di
volte, forse un po’ di polvere.
Quanto ho dormito?”
“Quasi dodici ore.”
Bene,
adesso per un mese non dormirò più penso.
Poi subito il mio pensiero va a
Papa e a tutto quello che mi ha detto, mi sento ancora un po’ confusa, spaesata
e non mi è chiaro cosa sia successo.
Dopo qualche minuto mi viene in
mente la storia del cellulare e chiedo: “Il cellulare?
L’hai trovato?”
“Si, era dentro alla scatola dei
souvenir di Hemingway, perché mi si era aperta la bottiglietta d’acqua in borsa
e non volevo bagnarlo.”
Le sorrido, riabbraccio il cuscino
e mi rimetto sdraiata sul letto, mi stropiccio gli occhi e sento che le mie
labbra sanno di whisky.
Un profumo di dolce proviene dalla
cucina, guardo mia madre con espressione interrogativa e le chiedo cosa sia
quel buon odore.
Lei risponde: “Dato che mi sono
alzata presto, ho preparato una torta.”
Così, ancora un po’ frastornata,
cerco le pantofole e quando le trovo le infilo alla rinfusa.
Mi alzo e, dopo aver dato un bacio
sulla guancia alla mamma, mi dirigo in cucina a prepararmi il caffè pronta a
raccontarvi delle meraviglie di Cuba.